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Arte e cultura | L'Orientale Web Magazine

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31. 08. 2010| Arte e cultura

Intervista a Giuseppe Sterlicco

Giuseppe Sterlicco è autore di due raccolte di poesie (Poesie dure & crude e Dal luogo crudele) e iscritto al corso di laurea in “Lettere Moderne” dell'Orientale. Ecco cosa significa, per lui, essere poeti

Quando ha iniziato a scrivere poesie?
 
È successo un novembre di non molto tempo fa. Mia nonna, malata ai reni, aveva avuto l'ennesimo grave attacco e due medici della mutua entrarono in casa dandole un'occhiata veloce. Dissero "Ha vissuto i suoi anni, è già un miracolo se supererà la notte... " e iniziarono ad infilarle degli aghi grossi e grassi nelle vene. Urlò tantissimo, non credevo che un essere umano in quelle condizioni potesse avere tutta quella forza e quel fiato per urlare in quel modo. Le urla erano strazianti, mi tappai le orecchie e scappai nella camera accanto. Pensai a tutte le volte che mia nonna aveva pregato di nascosto di notte, a tutte le sofferenze contro cui aveva combattuto, lei, triste vedova "riammaritata" del secondo dopoguerra, a tutti i rospi che aveva dovuto mandar giù per crescere i suoi quattro figli (uno avuto col primo marito, gli altri tre con il secondo), e provai una rabbia indescrivibile. Sputai in faccia all'enorme crocefisso d'oro placcato che i miei genitori avevano nella loro camera, gli urlai contro "sei contento? Non ha nemmeno il diritto di morire velocemente?". Le urla di mia nonna erano insopportabili, sentivo la testa scoppiarmi. Ricordai di avere un quadernetto dentro al quale riportavo aforismi o stralci di canzoni e poesie che ascoltavo alla radio o leggevo dai libri di letteratura. Lo presi, lo fissai, strappai le pagine già scritte e iniziai a scrivere, questa volta, ciò che sentivo nella mia testa...
 
Quando ha capito che scrivere poesie era un’attività decisiva per lei?
 
Fin da subito. Riuscii a liberarmi della rabbia che avevo dentro anche se solo momentaneamente. Tutto ciò che avvertivo nell'animo, che vedevo e che ascoltavo fu spiaccicato sulla pagina nuova di quel quadernetto e fu meraviglioso anche se intorno a me continuava a bruciare l'inferno delle urla, degli aghi, della morfina.
Ma, c'è da dire che, prima di scrivere, leggere è stato ancora più decisivo, Leggere è ricercare se stessi, un modo per esorcizzare paure, dolori, angosce, un modo per esorcizzare il tempo stesso. A volte preferire un libro a un colpo di pistola o a una corda legata al collo è una scelta molto più coraggiosa perché, in un certo senso, si rimane attaccati alla vita , benché consapevoli che le tribolazioni che ci riserva sono sempre lì, intorno a noi. E molte volte, se si riesce a trovare uno scrittore giusto, allora ci si può sentire meno soli.
Ecco, molti dicono che leggere e scrivere sono attività prevalentemente solitarie, ed è vero. Ma ti posso assicurare che personalmente non mi sono mai sentito così vicino a qualcuno, così vicino anche a me stesso, come quando ho letto un libro o scritto qualcosa. In entrambe le occasioni riconoscevo me stesso. Nelle parole di qualcuno altro o nelle mie, non ha quasi mai avuto importanza. Per me era importante riuscire a non sentirmi solo, almeno per un minuto.
 
Le piacciono tutte le sue poesie?
 
Sono orgoglioso e felice di ogni singola riga che ho scritto, pubblicato e non pubblicato, perché le cose che ho scritto, pubblicato e non pubblicato sono cose vere, cose che provo nell'animo e che sento con le orecchie. Non ho paura di essere letto e non capito ne tantomeno ho paura di essere letto, scoperto e deriso. Non provo alcun senso del pudore quando scrivo.
Mi sento in pace con me stesso, leale, sincero e vero con le cose che scrivo. Mi sento libero, si può dire.
 
Pensando al futuro, crede che pubblicherà ancora un libro di poesie o anche romanzi o racconti?
 
Chi scrive e pubblica (che ha un destino diverso da chi scrive e basta) è in balia di due giudici spietati: un editore che molto spesso pensa solo al guadagno e gli basta ricevere un bell'assegno da parte dell'autore; e il pubblico che in larga parte è ormai assuefatto ai prodotti preconfezionati che fanno parte di questa nuova cultura mediatica “usa e getta”. È la maledetta idea mercantile e devalorizzante della scrittura e dell'arte.
Nella mia piccola carriera editoriale posso dire, con franchezza, di essere stato fortunato: sono stato guidato e aiutato da una persona che ha innanzitutto letto le mie parole, ne è rimasto entusiasta, e ha deciso di investire tempo e denaro per pubblicarmi. Nonostante sia un poeta quasi sconosciuto, mi sento comunque un privilegiato perché ho trovato una persona onesta, che non ha preteso in cambio un centesimo di euro, nonostante la crisi che c'è in giro, e che ha saputo ''dar voce alla mia voce'' nonostante l'anonimato nel quale purtroppo le mie poesie affogano.
Per le pubblicazioni future: non lo so, di sicuro continuerò a scrivere fino a quando sentirò questa snervante ma piacevole fitta allo stomaco che di tanto in tanto mi obbliga a passare notti bianche davanti al faccione bianco e vuoto del computer.
 
A scuola era bravo in italiano?
 
"Il bambino prende parte attiva alle conversazioni, mostrando impegno, capacità di osservazione e riflessione. Utilizza con gusto personale i diversi linguaggi grafici e gestuali. Il livello generale di strumentazione espressiva conseguito è ottimo. Legge speditamente con capacità espressive e di comprensione, si esprime con chiarezza. Non mostra alcuna incertezza ortografica. È molto sicuro e ha una buona intuizione dei concetti logico-matematici."
Questo era il giudizio generale dopo il mio primo anno alle elementari. Come puoi notare, eccellevo già da allora nelle materie umanistiche. Alle superiori scrivevo temi che molto spesso emozionavano il docente di turno. Riempivo perfino i compiti di matematica di appuntini e bozze di poesiole, ma ciò non distraeva la professoressa dal mettermi il mio strameritato 3. A volte aggiungeva un + o due perché "la matematica è questione di numeri, non è la poesia... però quelle parole che hai scritto sono molto belle".
 
Nel passaggio da Poesie dure&crude a Dal luogo crudele pare emergere una riflessione più attenta sull’essenza della poesia. Conferma?
 
Dopo la pubblicazione di Poesie dure&crude ho iniziato a riflettere più sulla scrittura e sull'essenza stessa della poesia, e questa riflessione si è rivelata più matura e attenta, ma anche più disillusa e amara.
Avevo pubblicato 60 poesie, mi avevano intervistato per un giornale, avevano perfino organizzato un reading e una presentazione per le mie poesie: sapessi le strette di mano, le critiche e le congratulazioni, addirittura la gente mi aveva chiesto una dedica, un autografo. Ma dopo qualche settimana tutto era ritornato com'era prima, nessuno, a parte qualche amico o familiare, aveva letto le mie poesie, e i miei libri erano lì, in quell'unica libreria di Napoli, a fissarmi tristemente dalla vetrina.
Ho capito che fare poesia è ficcarsi le mani nella pancia e mostrare le budella agli occhi del mondo che il più delle volte è così impegnato nel proprio orrore che poco gli interessa delle 150 pagine del tuo primo libriccino.
 
Le piace la poesia di Di Giacomo? Ha mai provato a scrivere in dialetto?
 
La poesia di Di Giacomo mi piace tantissimo perché è una poesia, soprattutto in opere come Zi Munacella, ricca di nostalgia, tristezza e consapevolezza, per non parlare dei numerosi cenni e riferimenti storici che tanto mi appassionano. È una poesia che documenta, una poesia che denuncia non denunciando, raccontando semplicemente i fatti così come sono, senza quasi mai commentare, lasciando al lettore la rabbia e la voglia di domandarsi "Perché?!", e questo è un tipo di poesia che mi piace.
Personalmente credo che tutte le forme d'arte fatte a Napoli dalla fine dell’Ottocento fino agli anni '60-'70 del Novecento esprimano una poesia nostalgica e crudamente consapevole, una poesia malinconica e crepuscolare che purtroppo non c'è più.
Nonostante i miei 23 anni, non riesco a rispecchiarmi nella Napoli di oggi, una Napoli, l'unica che conosco da vicino, che non mi piace, mentre a volte mi incanto ripensando a quella poesia di cui era pervasa la Napoli di un tempo, quella Napoli che veniva fuori dai tristi ma poetici racconti di mia nonna o dai versi di una canzone struggente come Regginella. Una Napoli fatta di gente che sapeva meravigliarsi anche del fatto più banale, mentre oggi niente più ci meraviglia. Ecco, la Napoli di oggi è una Napoli rassegnata, una Napoli che non si meraviglia più di niente, un luogo crudele che sa di esserlo e non fa niente per cambiare. È un luogo crudelmente rassegnato.
Riguardo lo scrivere in dialetto ci ho provato subito dopo aver letto le poesie di Eduardo De Filippo e di Totò (poesie meravigliose). Ma scrivere in dialetto è difficile, soprattutto per chi come me vive in provincia e parla un dialetto che, in pratica, è molto diverso da quello di Napoli. Comunque sia, ho scritto un'unica smielata poesia d'amore chiamata O' Barbone e da qualche parte dovrei averla ancora conservata. Per il resto ho sempre preferito l'italiano, lingua madre che ben si presta alla poesia.
 
Quale è il tipo di poesia che preferisce? Ci sono autori che l'hanno segnata?
 
Non ho un tipo di poesia preferito. Mi hanno emozionato, finora, tantissime poesie e poeti, tutti diversi tra loro sia nei temi che nel linguaggio poetico. Ora non sto ad elencarti i poeti che mi piacciono, anche perché ci vorrebbero pagine e pagine e chissà che non ne dimentichi sempre qualcuno, ma ti dirò i nomi dei poeti che per primi mi hanno segnato e folgorato: Charles Baudelaire, Paul Verlaine, James Douglas Morrison, Giacomo Leopardi, Eugenio Montale, Hugo von Hofmannsthal, Charles Bukowski e William Shakespeare.
Ultimamente sto scoprendo altri poeti meravigliosi come Guido Gozzano, Cesare Pavese, Arturo Onofri, e i meno conosciuti Luciano Zaami, Carlo Di Legge ed Elias Zoccoli, poeti che ho scoperto grazie alla casa editrice Orientexpress.
 
E tra gli scrittori di romanzi?
 
Anche riguardo i romanzi ce ne sono tantissimi e farò solo qualche nome. Alla rinfusa, così come mi vengono in mente: il primo cantastorie greco Omero, e poi Luigi Pirandello, Fedor Dostoevskij, Franz Kafka, Thomas Mann, Charles Bukowski, Oscar Wilde, Gabriele d'Annunzio, Honoré de Balzac, il marchese De Sade, Giovanni Boccaccio, Henry Miller, Jack Kerouac, Robert Luis Stevenson, Jules Verne, Carlo Collodi, Alexander Dumas, Italo Svevo, Giovanni Verga, Elsa Morante, Hermann Hesse, Alfred Doeblin, Jane Austen, e tantissimi, tantissimi altri.
Menzione particolare a quattro autori, contemporanei e semi-sconosciuti ma che meriterebbero molto più successo, e che sono Giangaetano Bartolomei, Licia Pizzi, Luca Cerullo ed Elvira Santacroce.
Comunque sia, come puoi notare anche per gli scrittori come per i poeti, c'è una lista che comprende nomi differenti tra loro, nomi che appartengono a generazioni e 'stili narrativi' diversissimi.
Ma il libro che prima di tutti mi ha folgorato (avevo 15-16 anni quando l'ho letto per la prima volta, e tendo a rileggerlo due/tre volte all'anno ogni anno) non è stato un romanzo bensì un trattato filosofico, L'Anticristo di Nietzsche. Lo lessi d'un fiato e per la prima volta capii di non essere solo.
 
L’ambiente universitario dell’Orientale e i corsi che ha seguito hanno stimolato la sua attività di poeta?
 
All'Università ho scoperto e imparato tantissime cose di cui non conoscevo nemmeno l'esistenza. Ma l'ambiente accademico, per noi giovani artisti a cui piace sentirci e crederci tali, si presenta anche come un ambiente chiuso e statico, rinchiuso e rannicchiato su se stesso. Raramente incontro un docente che tenti di stimolare il mio interesse o che tenti di coltivare quella sorta di amore platonico che lega il maestro al discepolo. Solitamente il docente entra in aula, espone la lezione e va via. Nessun contatto formale o informale: esegue, semplicemente, il suo lavoro che ha cfu (crediti formativi universitari) stabiliti a priori.
E se gli proponi, tra le altre cose, di leggere qualcosa che hai scritto, molto spesso ti liquida immediatamente ricordandoti come, nonostante gli sforzi e i buoni propositi, "non potrai mai essere un Dante Alighieri o un Alessandro Manzoni".
L'unico docente che finora mi ha stimolato e al quale mi sento particolarmente legato è il professor Francesco De Sio Lazzari docente di Storia delle Religioni, ora purtroppo in pensione.
Uomo di un'incredibile forza e apertura mentale mi ha trasmesso due insegnamenti fondamentali: lo sconfinato amore per l'interesse e la scoperta, e l'attitudine a ricercare l'Individuo nell'approccio con gli altri. Inconsapevolmente, mi ha aiutato tantissimo nel mio percorso universitario regalandomi la speranza e la voglia di mettermi in gioco, e sarà una persona alla quale riserverò sempre un angolino speciale nel mio cuore, la persona che ricorderò con affetto e passione fino alla fine dei miei giorni.
Altri due docenti importanti sono stati il professor Michele Fatica, di Storia moderna e contemporanea, e la professoressa Annamaria Pedullà, di Metodologia e storia della critica letteraria.
Il primo mi ha trasmesso l'amore per la verità e la ricerca storica, amore che si coltiva mettendo da parte riserve e pregiudizi mentali anche contro il più insopportabile tra i nemici.
La seconda mi ha insegnato che spesso il mondo delle apparenze è ben lontano da quel mondo profondo sostenuto da Wilde: giudicare una persona al primo impatto è una forma d'approccio, ma non l'unica né tantomeno l'ultima.
Con il resto dei docenti ho per lo più seguito i corsi. E sostenuto gli esami. Il tutto attenendomi ai 4 o gli 8 cfu del caso.
 
Secondo lei perché non c’è nessuno che ami la poesia ed a cui non piacciano i versi di Rimbaud?
 
Arthur Rimbaud (come Charles Baudelaire) rappresenta il punto di rottura che la poesia moderna ha col passato, sia nei temi (introdotti da Baudelaire) che nel linguaggio. Ed è proprio nel linguaggio che Rimbaud porta la novità assoluta della sua poesia. Baudelaire introduce il gusto dell'orrido, della carne, della morte e del diavolo nella poesia (rubo il titolo a un bellissimo saggio di Praz), mentre anni più tardi Rimbaud spezza ogni tipo di legame linguistico/poetico col passato, coniando e creando un nuovo linguaggio poetico, un linguaggio consapevole degli orrori rivoluzionari e dei grandi cambiamenti sociali che erano avvenuti a metà dell'800.
Un linguaggio, quello di Rimbaud, che assume l'ambiguità semantica del simbolismo: nella poesia di Rimbaud ogni termine non solo è riconducibile ad una gamma di immagini, sensazioni, odori, colori contrastanti tra loro, ma ogni termine può assumere un qualunque significato o nessun significato se decontestualizzato dal processo poetico. Per farla breve, la poesia di Rimbaud presenta sostanzialmente i temi della poesia romantico-simbolista iniziata da Charles Baudelaire (il dolore, la morte, il male, la città), ma la vera novità di questa poesia rimbaudiana sta nel fatto che questo giovane poeta di appena diciassette anni conia, in breve tempo, un linguaggio del tutto nuovo che sta a cavallo tra prosa e poesia, rompendo una volta per tutte schemi e pragmaticità della poesia tradizionale.
Per questo leggere Rimbaud può essere un'esperienza snervante e difficile (ogni termine può avere più o nessun significato, inoltre conoscere la vita e il pensiero di Rimbaud è decisivo per la decodificazione dei suoi versi, per non parlare del fatto che agendo sul linguaggio e sul verbo Rimbaud agisce innanzitutto sulla lingua francese e quindi per gustarlo in pieno andrebbe letto in lingua originale) ma anche un'esperienza che lascia, nel lettore, la certezza che si sta leggendo qualcosa che ha portato una vera e propria rivoluzione nella poesia.
Arthur Rimbaud incarna perfettamente ciò che Baudelaire profetizzava nella sua celebre poesia L'Albatro: il poeta, in Rimbaud, assume non solo l'aspetto del veggente e dello sciamano, ma anche e soprattutto l'aspetto del perenne incompreso, del deriso, di colui che scrive e urla parole per lo più incomprensibili, parole che creano un corto-circuito semantico nella giungla selvaggia di simboli che è il mondo. Le parole rimbaudiane in un certo senso anticipano la velocità, la distruzione e lo sgomento che caratterizzerà il secolo seguente, il secolo ventesimo.
Che piaccia o no, che venga compreso o meno, Rimbaud rimane, sotto ogni aspetto, il più grande poeta moderno. E la sua grandezza sta proprio nel fatto che, forse più di ogni altro romantico del periodo, ha rotto, senza mezzi termini e senza mezze misure, ogni legame col passato arrivando addirittura ad alzarsi in piedi sul tavolo intorno al quale sedevano i migliori poeti senza ispirazione del periodo, e pisciare sulle loro opere.
Inoltre aveva appena ventun'anni quando ha deciso di chiudere con la poesia. Non so se mi spiego…
 
Negli anni ’70 sono stati fatti molti tentativi di scrivere poesie di gruppo. Riuscirebbe a fare una simile esperienza?
 
Non credo. Sono un solitario cronico che si diverte a ricercare amici scovandoli al massimo tra le pagine di un libro o guardandosi allo specchio. La scrittura, nella pratica (e qui completo il discorso iniziato con la seconda domanda che mi hai fatto), è un'operazione solitaria, è mettere su carta uno stato d'animo e molto spesso, rubo una citazione di Wilde, per qualcuno è poesia ciò che per altri è spazzatura. Forse scrivere un saggio a quattro mani, o un romanzo, è possibile. Quel tipo di scrittura è per lo più tecnica e studio. Ma non credo valga lo stesso per la poesia. A meno che non si provi a scrivere contemporaneamente due poesie distinte su di uno stesso argomento: ci provarono, tra gli altri, Paul Verlaine e Arthur Rimbaud. E, a parte il tema comune della poesia (di cui non ti parlo, altrimenti qualcuno potrebbe scandalizzarsi... ma sì dai!: Sonnet du trou du cul!), le due stesure sono completamente diverse, nonostante contengano quasi lo stesso numero di parole!
 
In un’intervista al Messaggero il poeta francese Yves Bonnefoy ha scritto che «descrivere l'orrore: questo è oggi il ruolo del poeta». Che cosa ne pensa? Qual è oggi il ruolo della poesia?
Concordo. Non a caso nei titoli delle mie due raccolte compaiono aggettivi come ''crude'' e ''crudeli''. In una poesia in particolare scrivo "siamo nati in un luogo crudele / e a questo luogo crudele / siamo abituati.". Tutto ciò che ci circonda è un orrore crudele, soprattutto qui nell’Italia del Sud, qui a Napoli. Si dice ''non sputare nel piatto in cui mangi'' ma io rispondo a questo luogo comune con ''se permetti è il mio piatto, solo io posso conoscerlo veramente, e se c'è qualcuno che ha il diritto di sputarci dentro quello sono io.". È per questo che non condanno chi ha vissuto a Napoli sentendosi un perfetto estraneo e appena ha avuto la possibilità è andato via. Questa persona ha tutto il diritto di parlare male della sua città: lui l'ha conosciuta, l'ha vissuta, ci ha sofferto, ha avuto le sue buone o cattive esperienze e nessuno più di lui può arrogarsi il diritto della critica. C'è il diritto all'elogio e il diritto alla critica, ma molto spesso si dà importanza solo agli elogi scartando e bollando le critiche come accuse diffamatorie o peggio ancora accuse infondate. Non c'è niente di diffamatorio o infondato nel raccontare la realtà che si è visto e vissuto. Merita rispetto chi parla male conoscendo i fatti, anziché chi parla bene di un posto senza mai averci messo piede ma solo per strappare un applauso o un consenso alle prossime elezioni.
Ritornando al discorso sul ruolo della poesia, la poesia esprime un sentimento intimo e questo sentimento proviene per lo più dalla nostra visione del mondo. La poesia è nel mondo e se il mondo è un orrore, allora la poesia non può far altro che descrivere questo orrore. Aggiungerei alle parole di Bonnefoy questo: "Ruolo che il poeta deve svolgere rispettando se stesso e la realtà, riportando i fatti così come sono." E se la gente si scandalizza urlando “al lupo!al lupo!” allora vorrà dire che il poeta è riuscito a descrivere in toto l'orrore che vede.
 
Il poeta americano Kenneth Koch, in un testo dal titolo Ars Poetica, ha affermato: «Bisogna avere a disposizione anni interi da dedicarle [alla poesia] e, se non anni, almeno mesi in certi momenti della vita. Settimane, giorni e ore potrebbero non bastare. I ritagli di tempo bastano solo ai poeti minori».
Quanto tempo dedica alla poesia? È d’accordo con Koch che bisogna darsi pienamente alla poesia per essere poeti?
 
A Koch rispondo con un altro americano di cui ho già citato il nome, Bukowski:
"se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla
macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo."
Come vedi Bukowski sosteneva, a ragione, che non c'è bisogno di dedicare chissà quante ore o, viceversa, quanti anni alla poesia: scrivere una poesia può essere questione di secondi o di secoli. Bisogna sentirla. È come un'intuizione: di getto butti su carta ciò che senti, o lo coltivi dentro di te per anni perché non riesci a trovare le parole adatte a scacciar via questo demonio, questa ossessione, dalla tua testa e dal tuo stomaco.
La poesia è soggettiva e soggettivi sono i tempi di ideazione e stesura. Così come i tempi di correzione, se se ne sente il bisogno.
I teorici dell'arte dovrebbero capire che la poesia è, per l'appunto, un'arte, non una tecnica, e l'arte a differenza della tecnica non necessita di tempi o tecnicismi precisi: è un attimo o un secolo. L'unica certezza è che una volta iniziato ti sentirai sì appagato ma per poco tempo. Le fitte allo stomaco e al cervello ritorneranno, perché scrivere è una pura e dolce ossessione.
 
In una poesia celebre Hölderlin si chiede: «Perché i poeti?». Molti anni dopo Heidegger risponderà che i poeti sono «i più arrischianti», cioè gli unici tra gli uomini disposti a «scendere nell’abisso» per ritrovare «una traccia del Sacro». Qui, il termine «sacro» non ha un’accezione strettamente religiosa ma vuole indicare tutto ciò che si oppone a quel mondo della «tecnica» con cui l’Occidente ha dimenticato le sue origini e il suo sfondo di grecità. Che cosa ne pensi? Può essere questo uno dei ruoli del poeta?
 
Ecco, la poesia si oppone alla tecnica! La poesia è un'arte, non una tecnica! E non me ne voglia, dall'altro mondo, Benedetto Croce o qualsiasi suo seguace!
Riguardo il ruolo del poeta, di sicuro è uno dei pochi esseri umani che rischia. E il rischio (nella migliore delle ipotesi) sta nel fatto che si mette a nudo, svela se stesso, e può essere (esattamente come L'Albatro di Baudelaire) soggetto a scherno e ghettizzazione da parte della società che gli sta intorno. D'altronde nella peggiore delle ipotesi il poeta può ritrovarsi nella morsa letale e desolante dell'anonimato e finire nel dimenticatoio.
Il poeta scava nell'animo umano alla ricerca degli istinti primordiali messi al bando dal rigore logico e dal tecnicismo, dalla morale istituita del mondo moderno e spesso capita che il poeta si veda umiliato come un delinquente qualunque (pensa al caso Wilde o al caso Verlaine).
Ecco, il poeta si mette a nudo, svela se stesso, molto spesso svela gli altri a loro stessi, racconta una verità che turba la quiete ipocrita nella quale la società si trastulla, e ci rimette in ogni caso faccia e pelle, sia che venga criticato, sia che venga dimenticato.
Ci vuole coraggio, oggi come in passato, nell'auto-definirsi poeta: per il mondo è come perdere in partenza. Al mondo piace credere alle bugie e alle illusioni mentre i poeti raccontano una verità e una realtà della quale il mondo può fare tranquillamente a meno.
 
Ancora Heidegger, per spiegare l’essenza della poesia, riprende questo verso di Hölderlin: «Per questo è dato all’uomo il più pericoloso di tutti i beni, il linguaggio… affinché testimoni ciò che egli è…». La parola può essere pericolosa? E può, la parola poetica, dire ciò che l’uomo è?
 
E qui arriviamo al nocciolo della questione: la parola è pericolosa! Soprattutto la parola poetica lo è poiché la poesia ha implicitamente una licenza che le permette di dire tutto quello che gli pare, quando gli pare, come gli pare. Il poeta, come ho già detto, scava dentro se stesso cercando l'essenza dell'Uomo, mettendo su carta sentimenti che molto spesso possono rivelarsi scomodi e universali. Sì, la parola poetica può dire ciò che l'uomo è veramente e l'uomo, in casi del genere, se messo davanti alla nuda e cruda verità fa spallucce come le tre scimmiette.
Il poeta è l'unico che ha il coraggio di mettere le cose in chiaro, sbatterti in faccia perversioni, linee d'ombra e malvagità che fanno parte di te ma che la società ti impone di tenere sotto controllo, di tacere. Il poeta in un certo senso amplifica le paure che nutre chi gestisce, dall'alto, la società. Il poeta ti parla all'orecchio e all'anima, il poeta ti accende la luce sull'orrore che ti circonda, il poeta ti informa che forse quello che vedi in realtà è manipolato e non è tutt'oro ciò che luccica. Ma anche il poeta può prostituirsi e il più delle volte lo fa per soldi. Quindi anche la poesia, e qui torna in ballo quel concetto di cultura pre-confezionata di cui ti ho parlato, può essere manipolazione... Bisogna saper leggere tra le righe e diffidare, sempre.
 
Restando in tema, Sartre nel saggio Cos’è la letteratura? scrive che «le parole sono come le rivoltelle cariche. Se parlano, sparano. […] La funzione dello scrittore è di far sì che nessuno possa ignorare il mondo o possa dirsene innocente».
La sua poesia può essere ricondotta a queste parole? Nessuno può dirsi innocente del luogo crudele in cui viviamo?
 
La mia poesia spara perché è "dura&cruda" e parla, senza mezze misure, di quel "luogo crudele" che ci circonda e che è dentro di noi.
Riguardo l'innocenza credo che gli unici che non possono dirsi innocenti sono proprio gli scrittori poiché vedono il mondo e canalizzano ciò che vedono in ciò che scrivono.
Gli innocenti sono quelli che si alzano al mattino e rischiano la vita in un lavoro in cui non credono e che, il più delle volte, li lascia insoddisfatti e se lo fanno è solo per sopravvivere con quei mille euro scarsi al mese che il mondo gli offre. Questi innocenti tornano a casa con la schiena a pezzi, si guardano allo specchio e riescono a trovare un motivo qualsiasi per tirare avanti almeno un altro giorno. Leggono il giornale tutti i giorni, magari anche un libro all'anno, riescono forse a capire o quanto meno a intuire quanto è realmente crudele questo luogo in cui viviamo, ma sanno che non possono farci niente e si sentono fortunati solo per il fatto che almeno hanno coscienza dei propri limiti e delle proprie incapacità. Questi sono gli innocenti che non fanno del male a nessuno, e che, alla fine, avranno una morte comune di serie b se paragonata alla morte di qualcuno che conta, una morte senza telecamere o medaglie al valore, una morte anonima. In questi casi la poesia conta ben poco se non per ricordare che anche loro esistono. E a me questo tipo di poesia, che è anche e soprattutto una poesia di denuncia, piace. È l'unico modo che questi innocenti hanno per lasciare una traccia.
È chi scrive che non può dirsi innocente. Sono gli scrittori, che nel bene e nel male, non possono dirsi innocenti: dal momento in cui scegli di raccontare diventi l'unico strumento con il quale i veri innocenti possono mostrarsi al mondo per quello che sono: semplici comuni mortali con un sacco di problemi sulle spalle.
 
Kafka, in una lettera a Felice Bauer, scrive: «quando si scrive non si può essere mai abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte».
Si riconosce in queste parole? Scrivere, per lei, è un’esperienza notturna?
 
Scrivere è per forza di cose un'esperienza notturna. Ti isoli dal mondo intorno, concentri tutte le energie e la mente su ciò che hai visto, su ciò che provi, su ciò che senti, e hai bisogno di silenzio. E la notte, soprattutto dopo che anche gli ultimi nottambuli sono andati a dormire, è il momento ideale per riflettere e scrivere.
La notte è carica di melanconia, di spleen, di saudade, di mistero anche.
E la notte è anche sinonimo di bilanci, tirare le somme della giornata, della settimana, dell'ultimo mese, dell'ultimo anno. La notte è un giro di boa a cui tutti siamo costretti a partecipare.
Ed è anche e soprattutto di notte che i pensieri più spiazzanti e sconfortanti vengono a bussare alle porte della tua mente e del tuo cuore.
Ecco perché mi auguro non solo di morire velocemente, ma anche in pieno giorno, magari all'ora di punta. Di giorno, qualsiasi cosa accade, sembra che non stia accadendo a te. La luce del sole è cinica, razionale, lascia poco spazio ai pensieri e durante il giorno tutti noi viviamo per lo più distrattamente, come automi. Camminiamo tra le strade, velocemente, raggiungendo uffici, cantieri, scuole o università. Abbiamo facce assonnate e occhiaie scure. I clacson ci violentano le orecchie così come le urla provenienti da qualche balcone del centro storico. Tutto alla luce del sole è veloce e insensibile.
Di notte, invece, l'atmosfera inizia a colorarsi di malinconia, di riflessione, di pensiero. Tutto diventa più difficile e assume quell'aria struggente che si respira passeggiando in un cimitero.
È un peccato il fatto che passiamo quasi tutta la vita a dormire di notte e vivere di giorno... La notte conserva dei segreti e degli stati d'animo che solo chi è sveglio di notte può riuscire a carpire e sentire.
 
Edgar Allan Poe – in un bellissimo saggio dal titolo Filosofia della composizione – sostiene che gli scrittori sono vanitosi e vogliono far credere di comporre in preda a un’illuminazione estatica. Nessuno di questi permetterebbe mai al lettore di guardare dietro la scena della scrittura, mostrando così “le elaborate e vacillanti crudezze del pensiero” e  “le penose cancellature”.
L’intento di Poe, dunque, sarebbe quello di esibire a tutti la tecnica con cui si compone una poesia e per farlo decide di spiegare verso per verso la composizione della sua poesia più famosa: Il Corvo. Fino a che punto condivide questo discorso?
 
Come ho già detto la poesia è una questione personale, così come sono personali le tecniche e i tempi di composizione. Di sicuro, per la pubblicazione (ecco perché ti dicevo che è diverso il destino di chi scrive e pubblica rispetto chi scrive e basta), c'è un lavoro di editoria che investe, oltre all'autore, diverse persone che apportano correzioni o suggerimenti che l'autore stesso può scegliere di seguire o no. Nel mio caso alcune correzioni le ho seguite, altre le ho lasciate perdere. Ci sono correzioni che, secondo me, devono essere apportate, ci sono suggerimenti che dati da un editore con occhio esperto (se serio, sicuro ed entusiasta dei tuoi scritti e delle tue poesie) possono solo giovare al tuo libro, e poi ci sono anche correzioni o suggerimenti che puoi scartare, soprattutto se snaturano o modificano l'idea, il tema, il sentimento di base di una poesia o di uno scritto.
Ti faccio un esempio: in una delle mie poesie c'era un aggettivo, vanesie, che l'editore mi aveva proposto di modificare con vane. Come puoi capire tra vanesie e vane corre un mare di distanza, hanno significati completamente diversi, e mettere uno o l'altro aggettivo vorrebbe dire modificare in toto il significato della frase o della poesia intera. Ergo, ho lasciato vanesie. Altri suggerimenti, come ad esempio il titolo stesso della raccolta, sono stati invece suggerimenti che ho accolto come l'oro: da un posto crudele è diventato dal luogo crudele. E capirai quanta differenza corre tra questi due titoli e quanto mi è stato utile il suggerimento (che è arrivato in verità da due persone) che tanto ha giovato al senso e alla raccolta in sé.
Ma comunque sia il succo della questione resta quello: la poesia è una questione personale, è un'arte che sfugge a qualsiasi tipo di tecnicismo o teorizzazione. Non esiste un manuale o un prontuario di rime che insegni come scrivere una poesia: la poesia è puro sentire e tutti, indiscriminatamente, abbiamo la facoltà naturale di sentire.
 
Leopardi nello Zibaldone: «L’analisi delle cose è la morte della bellezza o della grandezza loro, e la morte della poesia». È d’accordo?
 
D'accordo sull'osservazione ma non la condivido in pieno. Mi rendo conto che la razionalità, e l'analisi che da essa ne deriva, uccide la bellezza e la poesia delle cose, ma purtroppo voler attenersi alla semplice bellezza senza tener conto del perché, del come, del quando, è semplicemente illudersi.
A volte, come Leopardi, invidio gli antichi che sapevano meravigliarsi e stupirsi al fragore di un tuono, ma se si leggono i libri di storia si può notare come quella meraviglia e quello stupore non erano nient'altro che aspetti di un'ignoranza e una superstizione che, nella maggior parte dei casi, ha portato alle estinzioni di interi popoli e civiltà.
Certo, la poesia rende meno amaro il mondo, i dolori e la morte, ma una poesia il cui unico scopo è rendere meno amaro è una poesia che in realtà falsifica la realtà. La poesia deve raccontare l'amaro, sta al lettore renderlo più o meno amaro.
Personalmente mi sento troppo legato alla realtà per poter sottostare alle finzioni narrative o poetiche che spesso servono solo a vendere una copia in più. Preferisco apparire cinico e spietato ma crudamente poetico, anziché smielato e illuso, stupidamente cieco.
 
Paul Celan, uno dei più grandi poeti del ‘900, ha attraversato tragicamente il Nazismo, vedendo morire madre e padre, ed è morto suicida a Parigi. In un discorso a Brema disse: «io ho tentato di scrivere: per parlare, per orientarmi, per accertarmi dove mi trovavo e dove stavo andando […] fu un porsi in cammino, un tentativo di trovare una direzione».
La poesia può essere anche questo?
 
La poesia può essere tutto, anche ciò che non ci piace, ed è questa la più grande virtù della poesia, è per questo che amo la poesia!
C'è gente che va da uno psicologo per trovare se stessi e un proprio cammino, una propria direzione, risolvere conflitti interiori e trovare una strada, e per lo più lo psicologo dà un taccuino a questa gente e risponde con un semplice "Scriva!".
Ecco, io direi a questa gente: risparmiate quei 100 euro all'ora e comprate un quadernino da 30 centesimi!
 
Nel 1968 Roland Barthes scrive l’articolo La morte dell’autore, nel 1969 Michel Foucault (durante un convegno alla Société Française de Philosophie) pronuncia un discorso dal titolo Che cosa è l’autore? Entrambi pensano che, una volta creata, l’opera diventi indipendente dal suo autore passando nel pieno possesso del lettore che ha la massima libertà di interpretazione. Nietzsche stesso afferma che «tutto è interpretazione». Ma negli stessi anni di Barthes e di Foucault Susan Sontag scrive il breve saggio Contro l’interpretazione in cui afferma che «l’ interpretazione è la vendetta dell’intelletto sull’arte, è un impoverire».
Dove si colloca tra le due posizioni?
 
È difficile scegliere da che parte stare, soprattutto considerando il fatto che personalmente mi capita di trovarmi, nella pratica, da entrambe le parti: sono uno scrittore, ma anche un accanito lettore.
La libertà di interpretazione di un lettore è l'unica forma di democrazia esistente al mondo ma spesso può generare serie e problematiche incomprensioni con lo scrittore, anche e soprattutto per il fatto che il lettore tende quasi sempre ad impossessarsi di una frase, un aggettivo, decontestualizzandolo dall'opera e appropriandosene a proprio piacimento.
Lo scrittore, dal canto suo, si vede defraudato e incompreso: il lettore gli ha rubato una parola ma, cosa peggiore, il lettore "non ha capito.".
Ancora una volta rientriamo nella questione che la poesia (e la scrittura in generale) è un'arte alla quale poco servono manuali o saggi che ne interpretino l'apparato di funzionamento.
In questo caso specifico, inoltre, bisogna capire innanzitutto da che parte si sta: stiamo leggendo l'opera di qualcun altro, e quindi siamo lettori, o siamo gli scrittori che ascoltano i pensieri dei propri lettori?
L'abito, in questo caso, permettimi la battuta, fa il monaco e decide le sorti della questione. È impossibile scegliere da che parte stare se si sta nel mezzo e quindi preferisco seguire l'attimo: quando leggo da buon lettore rubo quanto più mi è possibile, quando scrivo da buon scrittore sostengo che l'interpretazione è impoverimento e vendetta sulle cose che scrivo.
 
Nel saggio del 1954 su Le porte della percezione Aldous Huxley parla delle esperienze vissute con l’uso della mescalina. Spesso si sente dire – da parte di chi fa arte in generale – che l’uso di droghe o comunque di sostanze che “aprono le porte della percezione” è un elemento importante per la creazione. L’americano Kenneth Koch, invece, afferma che queste sostanze possono «stimolare l’ispirazione» ma in generale «non sono di grande aiuto».
Quale è la sua idea?
 
A parte due unici spinelli alle superiori, non ho mai fatto uso di sostanze stupefacenti ma sono un accanito bevitore di birra e posso dirti con franchezza che lo stato d'alterazione provocato, nel mio caso dall'alcool, è uno stato particolare in cui le cose, gli oggetti, le mura, il concreto stesso si dissolve e tutto assume un aspetto ''morbido'' e ''smussato''. È come un film in 3D, una sensazione inspiegabile (da sobri), una sensazione unica nella quale, personalmente, mi sento molto a mio agio, mi sento bene. Il più delle volte finisco sul letto e mi faccio le migliori dormite della mia vita, altre volte capita di mettermi al computer a scrivere. Ma provare a scrivere sotto l'effetto di alcool vuole dire provare a scrivere sotto l'effetto di una dimensione parallela e, molto spesso, nel momento in cui la sbornia passa e tornando sobri si rilegge ciò che si è scritto si stenta a capirlo.
Ecco perché quando si prova a leggere autori come Huxley o Miller o Ginsberg o Lear o Morrison o anche Rimbaud converrebbe procurarsi prima una cassa da 6 birre, berle tutte a stomaco vuoto, aspettare 5 minuti e poi iniziare a leggere. Ci sono autori ubriachi che solo un ubriaco può riuscire a comprendere e in fondo leggere non è guidare e lo si può fare tranquillamente da ubriachi senza correre il rischio vedersi ritirata la patente o, peggio ancora, di fare del male.
 
Per concludere, torniamo alla sua poesia. Nel suo ultimo libro, Dal luogo crudele, c’è un testo che ha la forma di poemetto: Il sapore del Caos. Un poemetto. Da dove nasce? È una forma espressiva che usa spesso o si tratta di un esperimento isolato?
 
Il sapore del Caos è un esperimento, per ora unico, che è nato all'improvviso, qualche notte prima che mi venisse proposta la stesura e la correzione iniziale delle bozze per la pubblicazione della seconda raccolta di poesie. Rappresenta in pieno la metamorfosi transitoria del mio linguaggio poetico avvenuta proprio in questa seconda raccolta. È una prosa poetica che fa l'occhietto alle stagioni infernali di Rimbaud, ai canti orfici di Campana, ai sotterranei malfamati di Kerouac. È una sintesi del mio vissuto che si avvale dell'ambiguità del linguaggio poetico (è una prosa che vuol sentirsi poesia o è una poesia travestita da prosa?). Passo in rassegna gli avvenimenti maggiori della mia vita, alcuni dei quali erano già comparsi nelle 90 poesie precedenti (quelle della prima e queste della seconda raccolta), e altri che avevo volontariamente o involontariamente taciuto e che, quasi in un flusso di coscienza sveviano, mi erano ritornati in mente. Sono 10 pagine intense che chiudono la raccolta ma lasciano aperto il discorso iniziato quella sera di novembre di non molto tempo fa, tra le urla strazianti di mia nonna e quel quadernetto bianco resettato e ricominciato e grazie al quale oggi sono qui. E, nelle ultime righe di questa prosa poetica, attraverso un'ultima dichiarazione d'amore orgogliosa e ossessiva verso la poesia, dono al lettore il mio cuore nudo e crudo, consapevole del fatto che tutti possono fare di me quello che vogliono, defraudarmi o mostrare indifferenza.
Perché, come le ultime stesse righe recitano, "io sono il poeta, detentore del dolore e delle sciagure, e ne sono orgoglioso."

Autore: Aniello Fioccola

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