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Arte e cultura | L'Orientale Web Magazine

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20. 05. 2010| Arte e cultura

Matrimoni misti vs. legge: gli Stati Uniti d’America dai tempi della schiavitù ad oggi

La prof.ssa Angelita Reyes della Arizona State University affronta il problema dell’integrazione razziale a proposito dei matrimoni tra neri e bianchi durante e dopo il periodo della schiavitù

Napoli, L’Orientale, 20 maggio 2010. Intimità e convivenza sì, matrimonio no. Questo l’imperativo vigente nella legge e nell’opinione comune di molti Stati americani quando gli sposi in questione non erano della stessa razza: lui bianco, lei nera. O viceversa. E’ questo il tema di cui discute, partendo dall’epoca post-coloniale fino ad arrivare a casi più recenti, la prof.ssa Angelita Reyes della Arizona State University in una conferenza, tenuta a Palazzo Du Mesnil, dal titolo Qualcosa di vecchio, qualcosa di nuovo. “Razza”, sessualità e matrimonio: il momento postcoloniale negli Stati Uniti.
Il periodo storico da cui si parte è quello della schiavitù poiché il matrimonio in quanto istituzione è sempre specchio e riflesso di un contesto storico-culturale, e un retaggio importante quale quello delle discriminazioni razziali non può non aver influito anche su questo “rito di passaggio” che ha implicazioni sociali nonché legali.
E’ così che la docente, partendo dal Ritratto dei coniugi Arnolfini del pittore fiammingo Jan van Eyck (1434), inno alla fertilità e al matrimonio come sacramento, ricorda come nei secoli XVIII e XIX la comunità di schiavi statunitense riconoscesse il matrimonio, sebbene non regolato da alcun contratto né legalizzato: “till distance do us part” (“finché distanza non ci separi”), questa la formula nuziale in luogo del consueto death (“morte”), poiché l’unione durava finché la schiava non veniva venduta dunque separata dallo sposo. A questo proposito la Reyes cita Charles W. Chesnutt  e il suo racconto The Wife of His Youth (“La moglie della sua gioventù”), del 1898, nel quale la protagonista femminile, una schiava afro-americana, viene riconosciuta dal marito bianco e ricco dopo venticinque anni di separazione: la donna individua nel matrimonio un diritto a dispetto degli ostacoli posti dalla condizione di schiavitù. Ma nemmeno l’abolizione di quest’ultima ha apportato grandi cambiamenti: negli anni ’20 del secolo scorso, tutti i giornali newyorkesi parlavano del “caso Rhinelander”, una causa di divorzio durata anni e alla fine vinta da Alice Jones, domestica nata da padre scuro e madre bianca, che “aveva osato” sfidare la razza e la classe sociale sposando Leonard Rhinelander, bianco ed esponente di una delle più abbienti famiglie della Grande Mela. Il nodo della questione fu la presunta omissione al marito da parte della donna di essere coloured, mulatta, di qui il problema di fondo della categorizzazione stessa della razza. Il divorzio non avvenne e Rhinelander fu costretto a sborsare annualmente una cospicua somma di denaro, a patto che Alice non utilizzasse mai il suo cognome: sopravvissuta al marito di oltre sessant’anni, il nome inciso sulla tomba alla morte di lei, nel 1989, fu invece Alice J. Rhinelander. Ultimo caso presentato dalla Reyes, quello determinante perché nel 1967 la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarasse incostituzionale il Racial Integrity Act del 1924, che vietava i matrimoni interrazziali in alcuni Stati, tra cui la Virginia. Il caso in questione è il Loving v. Virginia, che vide Mildred Jeter, nera, e Richard Loving (!), bianco, sposatisi in Columbia nel 1958, essere arrestati per aver agito “contro la pace e la dignità della Virginia” e costretti ad emigrare e a vivere anni di tribolazioni finché la legge non fu modificata.
Questo iter cronologico percorso dalla Reyes ha lo scopo di sottolineare quanto sia stato importante ai fini dell’integrazione razziale riconoscere anche e soprattutto l’istituzione del matrimonio, a prescindere dall’effettivo raggiungimento di un’uguaglianza. Ancora oggi, non a caso, il rito africano del jumping the broom (“saltare la scopa”), viene praticato dagli sposi – non solo afro-americani – con una fortissima simbologia: “mi sposo perché l’ ho scelto”.

Autore: Luisa Lupoli

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