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Arte e cultura | L'Orientale Web Magazine

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12. 05. 2010| Arte e cultura

Ayu Utami e “Le donne di Saman”

Tradotto da Antonia Soriente e Benedetta Martalò il primo romanzo della giovane scrittrice indonesiana.

Napoli, 11 maggio 2010 – Esistono troppi modi con cui decidere di parlare di un libro. Bisogna scegliere. Così come nella traduzione, è necessario decidere se adattarsi al testo o finire, stremati, per adattare vita e storie raccontate al contesto e dunque al lettore/spettatore che le leggerà.
In questo caso, per questa volta, scegliamo – perché ne abbiamo la possibilità – d’incontrare la traduttrice de Le donne di Saman, Antonia Soriente, docente di Lingua e letteratura indonesiana all’Orientale. Se il ritmo di un libro sta nel contenuto, le storie di questo romanzo – sfrontatamente disallineate e montate come se non avessero passato nelle pagine precedenti – hanno i battiti accelerati di una nuova verità, e non solo letteraria.
Ayu Utami, nata nel ’68 a Bogor e cresciuta a Giacarta, viene inquadrata nelle file di quel fenomeno generazionale che, anche prima della caduta del regime repressivo del Nuovo Ordine di Suharto (1998, pochi mesi dopo la pubblicazione di Saman), ridava voce – critica e dissidente – ad un dibattito pubblico a lungo anestetizzato dalla politica del Generale. Già nel 1994, infatti, aveva fondato con altri colleghi l’Associazione dei Giornalisti Indipendenti, un atto che costò a lei il lavoro e ad altri la galera.
 
La scrittura come negazione ha la vivacità (nell’oralità riportata) e l’irrequietezza (nella ricercata non-convenzionalità della parola) di un’adolescente nei confronti della figura paterna – più largamente intesa nelle gerarchizzazioni della società e del governo. Sono descrizioni spesso sessualmente esplicite (vedi la Genesi spiegata a Saman da Yasmin via e-mail) che, in un contesto narrativamente vergine quale quello indonesiano, nascono in risposta a quel tipo di linearità tradizionale che ricerca nella narrazione coerente e nel grand’eufemismo della lingua la perfezione, nella purezza, dell’autorità immaginata inducente auto-censura.
Risveglio culturale, d’accordo, ma anche solo e semplice piacere; lettere erotiche, adulteri, incontri e camere d’albergo. Ma anche, etnicità e religione, cristianità e peccato (Saman è un prete cattolico convertitosi all’attivismo e all’amore), pluralità identitaria nazionale e ostilità anti-cinese. Non è difficile ora comprendere una tale sovversione di generi e stili a sfida dei tabù, anche se ci viene più difficile evitarle la classica etichetta di femminismo rappresentativo.
La traduzione in italiano rende, mantenendolo, il sincretismo di storie parallele, personaggi (all’inizio affascinanti poi brutalmente carnali) conflitti legati a realtà socio-poliche indonesiane (l’incidente causato dalla negligenza dei sovrintendenti in un campo di trivellazione petrolifera, la storia di Sihar) guardando all’originale anche e soprattutto nella struttura. Tono, stile, punteggiatura, irregolarità nell’uso delle virgolette (a contro-testimonianza delle convezioni ortografiche che separano il pensiero dalla parola) asseriscono già dal primo paragrafo del primo capitolo ad un tipo di linguaggio – una volta lirico e descrittivo, a volte tra la metafora e il realismo – giocato tutto su frasi brevi, tagliate, dirette e distintive di Ayu Utami. Negandosi così all’impulso di norme sintattiche di fluidità ed elaborazione storicamente occidentale, si resta fedeli alle prospettive, ambientazioni e più dislocamenti spazio-temporali del narratore stesso, che descrive, tra sequenza oniriche e vecchi miti, i destini di quattro donne intrecciati a quelli di un uomo dalle fede traballante, e che decidono della loro vita rinunciando ai ruoli di genere della società patriarcale nell’Indonesia degli anni ’90.
Dopo Il fuggitivo di Pramoedya Ananta Toer(Figlio di tutti i popoli e Questa terra dell’uomo sono traduzioni dall’inglese), e La strada senza fine di Lubis Mochtar con  traduzione dall’indonesiano, introduzione e note di L. Santa Maria (1967), questo di Ayu Utami è il terzo romanzo tradotto in italiano dalla lingua originale, dopo molto tempo. Le donne di Saman è edito da Metropoli d’Asia, progetto editoriale ambizioso che punta su autori che vivono in prima persona la realtà delle loro città, e che mantengono con esse una contiguità fisica, materiale col luogo e con le persone che gli danno respiro. Non più letteratura d’immigrazione ma fiero localismo.

Autore: Claudia Cacace

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