Le molte voci del Mediterraneo, l’ultimo libro di Iain Chambers, evoca un discorso critico di confine in grado di attraversare ambiti disciplinari differenti – dalla storia alla letteratura, dalla filosofia all’antropologia e alla musica – senza restare imbrigliato entro le pur sempre rigide barriere del sapere immaginato come edificio a compartimenti stagni. È una riflessione sulla nozione di frontiera e sui limiti della rappresentazione, un’immersione nelle faglie della modernità per ritrovarvi le tracce di un diverso modo di rapportarsi alla storia e ai suoi sviluppi.
La tesi di Chambers è che il Mediterraneo è stato un elemento chiave nella costruzione dell’identità europea, all’interno di un processo di differenziazione dall’alterità e di simultanea appropriazione. Nel corso dei secoli il “mare della complessità” è diventato un luogo di potere per un pensiero “cartografico”, che ha disegnato la geografia reale dei territori e la mappa immaginaria della rappresentazione e della memoria. Ciò è avvenuto secondo gli obiettivi di un progetto di possesso economico e politico-militare, cui contribuisce l’autorità di discipline scientifiche solo apparentemente neutrali. L’atlante storico che è stato prodotto condiziona ancora il presente e pone pesanti ipoteche sul futuro.
Le molte voci del Mediterraneo invita a chiedersi se vi sia un altro modo di “prendere possesso del mondo” – di abitare la terra – diverso dall’appropriazione aggressiva, dalla sottomissione e dalla violenza del colonialismo. Il libro di Chambers rappresenta una ragione in più per accogliere, senza possibilità di addomesticamento, il potenziale critico e autocritico del discorso postcoloniale nel suo radicalismo e la sua vocazione a muoversi tra fonti di varia natura, di transitare liberamente, cioè, tra i confini delle discipline e dei linguaggi.
La scelta di leggere le “cartografie incerte” del Mediterraneo da una prospettiva postcoloniale rientra in un progetto in base al quale la memoria del colonialismo (economico, politico, militare e scientifico), non potendo più essere rimossa, diventa un’arma di difesa contro nuovi, ripetuti e perfezionati tentativi di colonizzazione. Il postcolonialismo allora non segna una mera demarcazione tra l’età del colonialismo e il periodo storico successivo al processo di decolonizzazione formale. Più che un invito ad affrancarsi dal passato, è il monito perenne di una presenza incancellabile.
Le testimonianze di un mare dominato dalla potenza della flotta musulmana, le vicende delle comunità ebraiche nel mondo arabo del XIII sec. ricostruite da Shelomo Dov Goitein, e riprese nel romanzo di Amitav Ghosh Lo schiavo del manoscritto, raccontano di un mondo culturale e commerciale già ampiamente globalizzato, che collegava il Cairo alla Sicilia, il Nord Africa alla Spagna, e che si estendeva attraverso il Mar Rosso fino all’India. Un sistema di organizzazione economico-finanziario, politico e culturale con i centri nevralgici a Baghdad e al Cairo (p. 37), insomma altrove rispetto alla geografia eurocentrica.
La traversata ha inizio con un viaggio sonoro tra i linguaggi musicali. Chambers ci mostra che “i suoni sono destinati a viaggiare in una maniera che varca rapidamente le frontiere innalzate dalle identità locali e dai confini vicini” (p. 46). La capacità di ascoltare il risuonare di molte voci nella musica globalizzata, può renderci consapevoli di una trama più intricata della storia, intessuta con fili sonori che collegano la canzone napoletana al flamenco di Siviglia, al fado di Lisbona, al raï algerino.
È l’arte in generale che sfida il monoteismo della ragione europea. I romanzi di Assia Djebar, il cinema di Amos Gitai, il documentario Route 181 (2003) frutto della collaborazione di un regista palestinese (Michel Khleifi) e di uno israeliano (Eyal Sivan), la videoarte e la strada immaginaria sul Mediterraneo del progetto Solid Sea, la poesia araba di Ibn Nagrila (Shmuel Valevi, Gran Vizir di Granata), sono fonti di improvvise illuminazioni su una molteplicità di storie, che relativizzano la teleologia del racconto egemonico.
Se l’incombenza del vulcano fa di Napoli una città “naturalmente” associata all’idea di catastrofe, di distruzione imminente, è vero anche che il sentimento di decadenza incombente, il culto della rovina e l’effetto di caducità dell’esistente sono ribaditi in ogni angolo della città storica dalla massiccia presenza dell’arte e dell’architettura barocca.
Il debito storico verso il Mediterraneo è sedimentato nel tessuto urbano della città: dal passato “orientale” fino alle vicende più recenti del secondo dopoguerra, quando l’intreccio di poteri promosso e protetto dalle forze Alleate per il controllo del territorio fa di Napoli un centro politico strategico dell’area e al tempo stesso ne definisce fatalmente il destino di arretratezza e la funzionale alternativa di un sistema di gestione del territorio antistatalista e antisociale oggi ancora inattaccato. Chambers passa in rassegna le maschere identitarie della città-porto, porta del Mediterraneo, un tempo luogo di partenze e di “passaggi migratori” e oggi incrocio di odori e di merci nelle strade multietniche, che rimandano ad altre migrazioni (p. 130).
Le molte voci del Mediterraneo dimostra che gli studi postcoloniali continuano a inquietarci con le insegne della critica, e ci incoraggia a compiere un “salto” della ragione per ritrovare nella fluidità del mare e nelle poetiche del Mediterraneo quell’unione di etica e politica in grado di esprimere un umanesimo che non sia più “categoricamente incurante dell’espressione differenziata dell’umano” (p. 156).
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