Diritto d’oltremare è un’espressione che tenta di riassumere il carattere profondo e diverso della cultura giuridica italiana una volta trapiantata nelle colonie d’Africa a contatto diretto e continuo con gruppi di individui per comportamenti, idee, valori, credenze, tecniche, considerati inferiori rispetto al grado di civiltà raggiunto dalla società occidentale tra la fine dell’Ottocento e parte del Novecento. Messo di fronte ai problemi posti dalla presenza delle popolazioni colonizzate, lo Stato italiano rispose in maniera eurocentrica, imponendo fra nazionali e nativi una precisa gerarchia in base alla quale formulò regole e leggi.
Il diritto coloniale, al pari degli altri diritti dell’ordinamento giuridico del Regno d’Italia, costituì un principio di coesione senza il quale la società civile si sarebbe dissolta nell’anarchia; ma, la regola base non fu la coesistenza con l’arbitrio degli altri, secondo un principio di libertà, bensì la disparità nello status giuridico delle persone. In colonia la funzione essenziale del diritto fu altra, strettamente collegata all’affermazione dello Stato italiano ed al consolidamento dei diritti dei suoi cittadini al di là del Mediterraneo; la soggettività giuridica delle popolazioni indigene, se non completamente cancellata, fu senz’altro rifiutata e solo parzialmente riconosciuta.
Luciano Martone, Diritto d’oltremare: legge e ordine per le colonie del Regno d’Italia, Giuffrè Editore, Milano, 2007, 226 pp.
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